Da sempre la Germania è considerata, da un punto di vista economico, una nazione virtuosa, il “nucleo” intorno al quale è stata costruita l’Europa.
Le cose sono un po’ cambiate negli ultimi 12-18 mesi, periodo in cui molte certezze, per Berlino, sono venute meno: la crescita si è fermata, con il Paese andato addirittura in “recessione tecnica”, vale a dire con 2 trimestri consecutivi in crescita negativa, il debito pubblico cresciuto a € 2.400 MD, una leadership politica sempre più debole, una disoccupazione salita, a gennaio, al 6,1% dal 5,7% di dicembre. Con previsioni di crescita, per l’anno in corso, tagliate dall’1,4% allo 0,9%. Se non fosse che il termine PIGS, nato per identificare i Paesi europei più “problematici” (economicamente parlando), ha perso il suo significato, verrebbe da pensare che la G identifichi non la Grecia quanto piuttosto, appunto, la Germania.
Molti analisti e osservatori, in questi mesi, hanno cercato di capire le ragioni della crisi.
Una delle principali cause va senz’altro individuata negli stretti legami negli anni instaurati con la Russia, con cui vigeva una sorta di “do ut des”: tu mi assicuri le forniture energetiche di cui ho bisogno (molte, vista la forza dell’industria manufatturiera tedesca), io ti aiuto a crescere, insediando siti produttivi di molte aziende tedesche all’interno dei tuoi confini. Un paradigma che, a distanza di 2 anni, sappiamo bene a cosa ha portato.
Ma c’è, evidentemente, dell’altro, comunque sempre riconducibile alla situazione di guerra che lambisce la UE.
Uno studio apparso in questi giorni, che prende in considerazione oltre 176 conflitti scoppiati in 60 Paesi negli ultimi 150 anni, ci dice che nei Paesi che diventano “teatri di guerra”, e quindi con i territori devastati dai combattimenti, il PIL, mediamente, crolla del 30%, mentre l’inflazione subisce un aumento superiore anche al 15%, con una perdita dello stock di capitale che va oltre il 20%. Senza contare la perdita di vite umane, la tragedia umanitaria e le conseguenze fiscali sui conti pubblici.
Se si prende in considerazione il conflitto ucraino, l’analisi prevede che la perdita di PIL sarà, per Kiev, fino al 2026, pari ad almeno $ 120 MD. Un numero che, se messo al confronto, per esempio, al PIL del nostro Paese (circa € 2.000 MD), per quanto importante potrebbe sembrare non così catastrofico. Ben diversa, però, la situazione che riguarda l’Ucraina. Il PIL, nell’anno precedente lo scoppio della guerra (quindi quello riferito al 2021), era stato pari a circa $ 200 MD: in 5 anni, quindi, si perderebbe circa il 12% all’anno. Con una perdita dello stock di capitale ucraino che arriva a sfiorare i $ 1.000 MD.
Ma le conseguenze riguardano, in modo piuttosto evidente, anche le economie dei Paesi limitrofi (non solo quelli confinanti), in cui, in 5 anni, si ha una ricaduta sulla crescita pari ad una contrazione del 10%, con un aumento dell’inflazione che può arrivare al 5%: ma tanto più stretta è l’integrazione economica tra i Paesi, tanto maggiori possono essere le conseguenze. Nel caso specifico, i costi per la UE sono stimati in almeno € 70 MD, di cui almeno 20 in capo direttamente alla Germania (costi che non comprendono, ovviamente, la mancata crescita).
Le cose possono essere ben più gravi nei casi in cui il livello di integrazione economica fosse particolarmente elevato. Il caso più emblematico è Taiwan, Paese in cui si concentra circa l’80% della produzione mondiale di microchips: nella malaugurata ipotesi dello scoppio di una guerra, si arriverebbe a stimare una perdita di produzione pari ad almeno $ 2.200 MD in 5 anni. Se, invece, toccasse all’Iran, si arriverebbe ad una perdita stimata di circa $ 1.700 MD.
L’economia di certo non è una scienza esatta: tanti, troppi, sono i fattori che entrano in gioco, con implicazioni che vanno, in molti casi, ben oltre la sfera prettamente e meramente economica. Ma, dall’altra parte, ogni cosa. In economia, trova (o dovrebbe trovare) una spiegazione: essendo comunque legata ai “numeri”, questo dovrebbe consentire una sua lettura piuttosto “consequenziale”. Ogni cosa, pertanto (a parte i “cigni neri”, per definizione imprevedibili), dovrebbe essere, appunto, prevedibile. Facile a dirsi, un po’ meno a farsi, come il presente continua a ricordarci.
Il rialzo di ieri a Wall Street (Nasdaq + 1,18%, Dow Jones + 0,40%, S&P 500 + 0,96%) “contagia”, questa mattina, i mercati asiatici.
A Tokyo il Nikkei sale dello 0,65%, mentre a Hong Kong l’Hang Seng segue a + 0,58%.
Gran rimbalzo di Taiwan, che, alla riapertura dopo le festività legate al capodanno cinese, guadagna oltre il 3%.
Ancora chiusa, invece, Shanghai.
Futures ovunque in rialzo., con progressi intorno allo 0,20/0,30%.
Torna a scendere il petrolio, con il WTI a $ 76,44.
Si stabilizza il gas naturale Usa, che si “arrocca” intorno a $ 1,6 (1,618, + 0,37%).
Oro poco mosso, a $ 2.006,20.
Scende lo spread, questa mattina a 150 bp.
BTP al 3,85%.
In calo, dopo giorni di rialzi, il rendimento del bund tedesco, a 2,33%.
Treasury Usa a 4,23%, dopo la fiammata del giorno precedente.
Leggera ripresa per l’€, a 1,074 verso $.
Bitcoin a $ 52.027; da inizio anno il rialzo è stato già del 22% (l’effetto “ETF” si fa, evidentemente, sentire: gli 11 strumenti recentemente autorizzati dalla SEC americana hanno iniziato la loro attività e, quindi, stanno “costruendo” il portafoglio).
Ps: è noto quanto il lusso sia importante per la ns economia (si calcola che valga almeno € 100 MD). Ma, forse, il vero “fiore all’occhiello” del nostro Paese è un’azienda che opera in un altro settore. La Ferrero, infatti, con un nuovo incremento del 20,7% su base annua, si è portata a oltre € 17 MD di ricavi. Una crescita che riguarda un po’ tutti rami aziendali, ma che vede la nutella ancora il contributore maggiore, con 500.000 tonnellate prodotte. E pensare che tutto è partito da un laboratorio si Alba nel 1946. Non era un garage, ma un piccolo negozio. Ma il risultato non cambia.